WC Giapponese

Se nella vostra vita avete visitato altre parti del mondo, vi siete senz’altro resi conto che esiste una grande ricchezza culturale in tema di defecazione. L’umanità prende molteplici strade verso il sollievo.

Alcuni di noi si siedono su alti troni, altri si accovacciano sopra un buco per terra. Alcuni di noi si puliscono usando fogli di carta, altri adoperano una brocca d’acqua appositamente riempita. Alcuni di noi, li chiameremo “i giapponesi”, hanno inventato una magica asse del water, che trasforma l’atto della defecazione in un rituale di piacere tecnologico.

È possibile che abbiate sentito parlare di questi water giapponesi. Forse avete anche potuto sperimentarli durante un viaggio a Tokyo. Sono dotati di telecomando, sedile riscaldato e funzionano anche come bidet. Alcuni modelli riproducono un soave rumore di fondo, in un tentativo di coprire altri rumori meno soavi. Toto, il principale produttore di queste assi del water, ha introdotto il primo “Washlet” nel 1982 e si stima che oggi circa il 70 per cento dei giapponesi ne possieda uno. (Allo stesso tempo solo il 30 per cento dei giapponesi possiede una lavastoviglie: lavarsi il sedere ha la precedenza sul lavare i piatti).

Per qualche ragione, qui negli Stati Uniti non siamo ancora saliti sul treno dei water di lusso. La Toto dice che ogni anno aumenta il suo mercato in Nord America e che ogni mese vende diverse migliaia di assi del water. Tuttavia non una sola delle persone che conosco, incluse quelle che si comprerebbero anche l’ultimissimo forno con touch screen, possiede uno di questi water con bidet incorporato. Per quello che ho potuto vedere io, i Toto sono praticamente introvabili anche nei bagni degli alberghi di lusso.

Visto quanto spesso usiamo i nostri bagni, e visto quanti soldi spendiamo spensieratamente per equipaggiare ogni altro angolo della nostra casa con i più avanzati dispositivi elettronici, la mancanza di mercato per i Toto in Nord America è piuttosto curiosa. Mi sono chiesto: cos’è che i giapponesi sanno che noi non sappiamo? Per capirlo mi sono comprato un Washlet S350 della Toto, il top della gamma, e me lo sono messo in bagno.

L’installazione non è stata un problema. Si toglie la vecchia asse del water e la si rimpiazza con quella nuova. L’ho fatto da solo in circa 20 minuti. Ho sbattuto la testa un paio di volte sulla porcellana, lo ammetto, ma comunque sono riuscito a chiudere il rubinetto dell’acqua dello sciacquone, staccare il tubo dell’acqua che arriva dal muro e avvitare l’adattatore che serve per il Toto. Ora l’acqua non va solo allo sciacquone, ma anche all’ugello del bidet e al sistema di autopulizia della tazza.

Ho inserito le batterie nel telecomando e – voila! – in un colpo solo il mio bagno si è trasformato in un luogo di sorpresa e piacere. Schiacci un bottone e l’asse si alza da sola, non la devi toccare. Schiacci il bottone di nuovo e l’asse torna elegantemente al suo posto, pronta all’azione. Come mi vede arrivare, il Washlet spruzza un soffio di acqua nella tazza così che, come spiegano le istruzioni, lo “sporco” non si appiccichi.

Qui è doveroso avvisare i lettori più puritani: stiamo per passare alla descrizione delle funzioni più intime del Washlet. Funzioni che si possono sperimentare solo dove aver sganciato, diciamo.

Primo, il sedile è riscaldato. Questo fa parte di quel genere di cose di cui non pensi di aver bisogno nella tua vita fino a quando non le provi e subito dopo ti rendi conto di non poterne più fare a meno. È un vero piacere posare le natiche su un ovale di confortevole tepore, invece di sentire il solito freddolino. Usando il telecomando, poi, la temperatura della seduta si può regolare fino a renderla perfetta per le cosce.

Quando arriva il momento, anche la funzione bidet è pronta a un tuo ordine. Tra le funzioni dell’asse, questa è quella che fa la differenza. Quella essenziale. Quella che divide la Toto da tutte le altre assi del water. Ed è anche qualcosa che sembra intimidire tutti noi americani, collettivamente.

Cosa si nasconde dietro questo problema che abbiamo con un lavaggio del sedere che non sia “a secco”? Consideriamo forse quei secchi fogli di carta igienica come una giusta punizione per i nostri osceni bisogni corporali? O siamo solo imbarazzati all’idea di dedicare troppe attenzioni a certe parti del nostro corpo? Forse pensiamo che sia strano o da deviati dedicare del tempo e dei soldi ai nostri sederi; o magari è che siamo imbarazzati all’idea che qualcuno, vedendo i nostri bidet, scopra finalmente che anche noi abbiamo un ano e che, qualche volta, è anche sporco.

Per rendersi conto che ci sia un generale problema a usare qualcosa di diverso dalla cara vecchia carta igienica, basta guardare quanto basse siano le vendite di salviettine umidificate in questo paese. Nell’ultima pubblicità della Cottonelle per le sue salviette c’è una donna britannica che desidera “parlarti del tuo sedere”. In qualche modo, il suo accento e il suo lezioso vocabolario sono abbastanza strani e lontani per permetterle di convincere i suoi interlocutori americani. Ma il fatto che ci serva uno straniero per farci anche solo prendere in considerazione di usare i fazzolettini umidificati è indicativo della miriade di ostacoli sociali che rendono ardua questa missione. E in effetti le vendite delle salviette umidificate, negli Stati Uniti, vanno malissimo, almeno per quello che ho potuto capire. Le salviettine rappresentano solo il 3 per cento delle vendite di carta igienica e la crescita è pressoché inesistente. Delle famiglie americane che comprano carta igienica umida, il 54 per cento la nasconde dalla vista mettendola in un armadietto in bagno, il che significa che probabilmente viene usata anche piuttosto raramente.

In altre parti del mondo ci considerano dei pazzi per la nostra ostinazione a pulirci solo con la carta igienica. Provate ad andare nel sudest asiatico: troverete sempre un contenitore pieno d’acqua o una canna da giardino vicino alle turche dei bagni. Anche noi americani riconosciamo l’utilità delle salviettine umide quando puliamo il sedere dei nostri bebè. Nessun genitore userebbe solo la carta igienica sul sedere del suo bambino, ma quasi tutti gli adulti si privano di questo semplice comfort.

David Krakoff, presidente del reparto vendite di Toto USA, ha provato a sostenere la tesi della superiorità della pulizia a liquido su quella a sfregamento: «Non considereresti mai le tue mani “pulite” dopo averle solamente sfregate con un tovagliolo asciutto. Le docce che ci facciamo ogni giorno sarebbero del tutto inutili se le facessimo senza acqua». Certo, potreste comprarvi le Cottonelle ed essere comunque più felice della maggioranza degli americani. Ma io suggerisco umilmente che il bidet sia mille volte meglio delle salviettine. Mani libere e un piacevole spruzzo. Una pulizia a pressione per il vostro “telaio”. In qualunque momento potete migliorare la vostra esperienza con della carta igienica tradizionale, se lo desiderate.

Qualche giorno fa ho mostrato il mio nuovo Washlet a degli amici che ho ospitato a casa, ne erano intrigati ma hanno ammesso di essere un po’ spaventati dalla novità. Lo spruzzo sarebbe stato freddo e abrasivo? Proprio il contrario: la temperatura la si può regolare per simulare una fresca pioggia primaverile o una tiepida corrente termale. Allo stesso modo, il bidet può essere manovrato avanti o indietro per puntarlo verso il punto esatto. Degli appositi pulsanti sul telecomando, inoltre, attivano l’oscillazione e il ritmo dello spruzzo, la cui intensità può anche essere regolata.

Vi risparmierò descrizioni più dettagliate delle mie esperienze con il Washlet. Ma è diventato difficile pensare a come era la mia vita prima. In più, ora che ne ho uno a casa, vorrei averne uno in tutti i posti dove mi trovo.

(Va detto: vivo da solo e non ho avuto occasioni di chiedere ad un’amica di provare la funzione del Washlet dedicata alle donne che permette di distinguere tra “davanti” e “dietro” e che è segnalata sul telecomando da una silhouette di donna. L’ho provata io, per curiosità. Ho scoperto che non importa dove spruzzi, là sotto è sempre un piacere. Ah, il telecomando offre anche la possibilità di memorizzare combinazioni di impostazioni per diverse persone)

Ora, resta da parlare del prezzo. Su Amazon il Washlet costa intorno ai 900 dollari. In effetti sembra un bel po’ per un’asse del water. Ma non credo che il Washlet sia un acquisto stupido. Sento sempre di persone che si vantano di aver speso una fortuna per un nuovo materasso, giustificandosi con il fatto che passiamo un sacco di ore a letto. La logica rimane la stessa anche quando parliamo del bagno. Pensateci: quanto sareste disposti a pagare per la felicità e il benessere delle vostre regioni basse?

Il problema per la Toto è questo: è difficile che le persone possano immaginare cosa si stanno perdendo. Prima di aver provato quel senso di piacere è impossibile anche solo concepirlo. Forse la Toto dovrebbe disseminare i suoi Washlet in giro per il paese dove le persone potrebbero provarne i benefici e conoscere la gioia che un bidet può dare. Un concessionario che offra prove su strada, potrebbe essere un’idea! Confesso di non invidiare quelli del dipartimento marketing della Toto. La loro causa, tuttavia, è buona e giusta e credo che col tempo i nostri dubbi verranno lavati via. Scusate il gioco di parole.

Gino Strada

Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili. A Quetta, la città pakistana vicina al confine afgano, ho incontrato per la prima volta le vittime delle mine antiuomo. Ho operato molti bambini feriti dalle cosiddette ‘mine giocattolo’, piccoli pappagalli verdi di plastica grandi come un pacchetto di sigarette. Sparse nei campi, queste armi aspettano solo che un bambino curioso le prenda e ci giochi per un po’, fino a quando esplodono: una o due mani perse, ustioni su petto, viso e occhi. Bambini senza braccia e ciechi. Conservo ancora un vivido ricordo di quelle vittime e l’aver visto tali atrocità mi ha cambiato la vita.

Mi è occorso del tempo per accettare l’idea che una ‘strategia di guerra’ possa includere prassi come quella di inserire, tra gli obiettivi, i bambini e la mutilazione dei bambini del ‘Paese nemico’. Armi progettate non per uccidere, ma per infliggere orribili sofferenze a bambini innocenti, ponendo a carico delle famiglie e della società un terribile peso. Ancora oggi quei bambini sono per me il simbolo vivente delle guerre contemporanee, una costante forma di terrorismo nei confronti dei civili.

Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1.200 pazienti per scoprire che meno del 10% erano presumibilmente dei militari. Il 90% delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo ‘il nemico’? Chi paga il prezzo della guerra?

Nel secolo scorso, la percentuale di civili morti aveva fatto registrare un forte incremento passando dal 15% circa nella prima guerra mondiale a oltre il 60% nella seconda. E nei 160 e più ‘conflitti rilevanti’ che il pianeta ha vissuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, con un costo di oltre 25 milioni di vite umane, la percentuale di vittime civili si aggirava costantemente intorno al 90% del totale, livello del tutto simile a quello riscontrato nel conflitto afgano. Lavorando in regioni devastate dalle guerre da ormai più di 25 anni, ho potuto toccare con mano questa crudele e triste realtà e ho percepito l’entità di questa tragedia sociale, di questa carneficina di civili, che si consuma nella maggior parte dei casi in aree in cui le strutture sanitarie sono praticamente inesistenti.

Negli anni, Emergency ha costruito e gestito ospedali con centri chirurgici per le vittime di guerra in Ruanda, Cambogia, Iraq, Afghanistan, Sierra Leone e in molti altri Paesi, ampliando in seguito le proprie attività in ambito medico con l’inclusione di centri pediatrici e reparti maternità, centri di riabilitazione, ambulatori e servizi di pronto soccorso. L’origine e la fondazione di Emergency, avvenuta nel 1994, non deriva da una serie di principi e dichiarazioni. È stata piuttosto concepita su tavoli operatori e in corsie d’ospedale. Curare i feriti non è né generoso né misericordioso, è semplicemente giusto. Lo si deve fare.

In 21 anni di attività, Emergency ha fornito assistenza medico-chirurgica a oltre 6,5 milioni di persone. Una goccia nell’oceano, si potrebbe dire, ma quella goccia ha fatto la differenza per molti. In qualche modo ha anche cambiato la vita di coloro che, come me, hanno condiviso l’esperienza di Emergency. Ogni volta, nei vari conflitti nell’ambito dei quali abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che l’uccisione di civili, morte, distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra.

Confrontandoci quotidianamente con questa terribile realtà, abbiamo concepito l’idea di una comunità in cui i rapporti umani fossero fondati sulla solidarietà e il rispetto reciproco. In realtà, questa era la speranza condivisa in tutto il mondo all’indomani della seconda guerra mondiale.

Tale speranza ha condotto all’istituzione delle Nazioni Unite, come dichiarato nella Premessa dello Statuto dell’Onu: «Salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole». Il legame indissolubile tra diritti umani e pace e il rapporto di reciproca esclusione tra guerra e diritti erano stati inoltre sottolineati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta nel 1948. «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» e il «riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo».

70 anni dopo, quella Dichiarazione appare provocatoria, offensiva e chiaramente falsa. A oggi, non uno degli Stati firmatari ha applicato completamente i diritti universali che si è impegnato a rispettare: il diritto a una vita dignitosa, a un lavoro e a una casa, all’istruzione e alla sanità. In una parola, il diritto alla giustizia sociale. All’inizio del nuovo millennio non vi sono diritti per tutti, ma privilegi per pochi. La più aberrante in assoluto, diffusa e costante violazione dei diritti umani è la guerra, in tutte le sue forme. Cancellando il diritto di vivere, la guerra nega tutti i diritti umani.

Vorrei sottolineare ancora una volta che, nella maggior parte dei Paesi sconvolti dalla violenza, coloro che pagano il prezzo più alto sono uomini e donne come noi, nove volte su dieci. Non dobbiamo mai dimenticarlo. Solo nel mese di novembre 2015, sono stati uccisi oltre 4mila civili in vari Paesi, tra cui Afghanistan, Egitto, Francia, Iraq, Libia, Mali, Nigeria, Siria e Somalia. Molte più persone sono state ferite e mutilate, o costrette a lasciare le loro case. In qualità di testimone delle atrocità della guerra, ho potuto vedere come la scelta della violenza abbia – nella maggior parte dei casi – portato con sé solo un incremento della violenza e delle sofferenze. La guerra è un atto di terrorismo e il terrorismo è un atto di guerra: il denominatore è comune, l’uso della violenza.

Sessanta anni dopo, ci troviamo ancora davanti al dilemma posto nel 1955 dai più importanti scienziati del mondo nel cosiddetto Manifesto di Russel-Einstein: «Metteremo fine al genere umano o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?». È possibile un mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano? Molti potrebbero eccepire che le guerre sono sempre esistite. È vero, ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile, né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo impossibile da raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro futuro. Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare.

Come medico, potrei paragonare la guerra al cancro. Il cancro opprime l’umanità e miete molte vittime: significa forse che tutti gli sforzi compiuti dalla medicina sono inutili? Al contrario, è proprio il persistere di questa devastante malattia che ci spinge a moltiplicare gli sforzi per prevenirla e sconfiggerla. Concepire un mondo senza guerra è il problema più stimolante al quale il genere umano debba far fronte. È anche il più urgente. Gli scienziati atomici, con il loro Orologio dell’apocalisse, stanno mettendo in guardia gli esseri umani: «L’orologio ora si trova ad appena tre minuti dalla mezzanotte perché i leader internazionali non stanno eseguendo il loro compito più importante: assicurare e preservare la salute e la vita della civiltà umana».

La maggiore sfida dei prossimi decenni consisterà nell’immaginare, progettare e implementare le condizioni che permettano di ridurre il ricorso alla forza e alla violenza di massa fino alla completa disapplicazione di questi metodi. La guerra, come le malattie letali, deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente. L’abolizione della guerra è il primo e indispensabile passo in questa direzione. Possiamo chiamarla ‘utopia’, visto che non è mai accaduto prima. Tuttavia, il termine utopia non indica qualcosa di assurdo, ma piuttosto una possibilità non ancora esplorata e portata a compimento. Molti anni fa anche l’abolizione della schiavitù sembrava ‘utopistica’.

Nel XVII secolo, ‘possedere degli schiavi’ era ritenuto ‘normale’, fisiologico. Un movimento di massa, che negli anni, nei decenni e nei secoli ha raccolto il consenso di centinaia di migliaia di cittadini, ha cambiato la percezione della schiavitù: oggi l’idea di esseri umani incatenati e ridotti in schiavitù ci repelle. Quell’utopia è divenuta realtà. Un mondo senza guerra è un’altra utopia che non possiamo attendere oltre a vedere trasformata in realtà. Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell’umanità.

Ricevere il Premio Right Livelihood Award incoraggia me personalmente ed Emergency nel suo insieme a moltiplicare gli sforzi: prendersi cura delle vittime e promuovere un movimento culturale per l’abolizione della guerra. Approfitto di questa occasione per fare appello a voi tutti, alla comunità dei colleghi vincitori del Premio, affinché uniamo le forze a sostegno di questa iniziativa. Lavorare insieme per un mondo senza guerra è la miglior cosa che possiamo fare per le generazioni future.