Tiziano Terzani

E così c’ero arrivato anch’io. Fermo come un sasso, seduto per terra, a gambe
incrociate, con le mani posate una sopra l’altra, all’altezza dell’ombelico, le
palme rivolte all’insù, la schiena dritta, le spalle rilassate e gli occhi chiusi, a pensare alla punta del mio naso, a cercare quell’attimo in cui il respiro,
fattosi lento e leggero, entrando e uscendo, tocca un punto preciso della pelle.
Un’ora dopo l’altra. Un giorno dopo l’altro: senza mai dire una parola, mangiando vegetariano – l’ultimo pasto prima di mezzogiorno -, a letto alle nove, senza leggere la pagina di un libro per non distrarsi, cercando di essere sempre cosciente di ogni gesto, di ogni pensiero, di ogni sensazione.
La meditazione: avevo passato mezza vita in Asia e non me n’ero mai occupato.
Sentivo di gente che la faceva, che andava a questi corsi, ma mi pareva una cosa
che non mi riguardava, una roba per disorientati, una risposta d’evasione ai
problemi del mondo. E’ incredibile, ma è così. In Cina, in Giappone, in Tibet,
in Corea, in Thailandia, in Indocina avevo visitato decine di templi, passato
giornate e giornate nei monasteri buddhisti, ma il problema della meditazione
non me l’ero mai posto. A che serve? Come la si fa? Qual è il suo senso?
Attratto dalla bellezza plastica delle statue, avevo accumulato diversi Buddha,
ci ero vissuto assieme – uno birmano, di bronzo, aveva presieduto silenziosamente alla mia biblioteca per più di vent’anni -, ma non mi ero mai chiesto che cosa ci facessero lì, seduti nella posizione del loto, con quel loro sorriso magnanimo, gli occhi semichiusi, una mano in grembo e l’altra che toccava la terra. Davvero non me l’ero mai chiesto, come qualcuno che non si fosse mai domandato il senso di un Cristo sul crocefisso che fin dalla nascita ha avuto sopra
il letto.
Ma la vita è anche un continuo spreco. Quante belle persone si incontrano senza
che ce se ne accorga; e quante belle cose non si notano sulla via che uno fa ogni giorno, tornando a casa! Come sempre occorre l’occasione giusta, un qualche
caso; occorre qualcuno che ti fermi e che ti faccia prestare attenzione a questo
o a quello. Il cammino che aveva portato me al ritiro di Pongyang era stato
quello di un labirinto, ma alla fine, un po’ seguendo il filo degli indovini –
«Medita!» mi avevano detto in tanti -, un po’ seguendo i sassolini bianchi seminati da Karma Chang Choub, avevo dato retta a Leopold che, dopo avermi tante volte parlato del suo «maestro», a novembre mi aveva detto che John Coleman sarebbe venuto a tenere uno dei suoi famosi corsi in Thailandia e mi aveva raccomandato di andarci. «Devi capire la meditazione», diceva,«altrimenti che cosa ci sei stato a fare tutti questi anni in Asia?»
L’idea di imparare a meditare da un americano, ex agente della CIA, mi pareva
strana, ma è vero, come diceva Leopold, che spesso ci vuole un mediatore occi-
dentale per arrivare a capire certe cose dell’Oriente.
[…]
La giornata cominciava prima del levar del sole con i colpi di un gong che, dal-
la terrazza, rimbombava, gentile ma severo, attraverso la valle, facendo presto
apparire la trentina di pile a mano dei partecipanti che, come lucciole nell’oscurità, risalivano la collina. Ciascuno prendeva posto sul suo cuscino quadrato e meditava per un’ora, rivolto verso una pedana sulla quale, accanto a un piccolo altare con un Buddha e dei fiori, meditava il «maestro». Seguivano la colazione, due ore di meditazione guidata, con un intervallo di un quarto d’ora, il
pranzo – vegetariano – alle undici, due ore di riposo e poi di nuovo ore di meditazione. Al tramonto c’era una lezione sul Dharma, la via del Buddha. Il gong ritmava le ore. L’ultimo suo tuonare, lento e caloroso, era alle nove, l’ora diandare a letto.
[…]
I primi giorni furono durissimi. Appena seduto,la posizione del loto mi pareva comodissima, ma dopo un quarto d’ora diventava insopportabile; dopo mezz’ora era una vera tortura: le ginocchia sembravano riempirsi di spilli, la schiena era tutta un crampo e il desiderio di muoversi diventava fortissimo. Mai, neppure per un secondo, riuscivo a «meditare». Invece d’essere là dove il respiro toccava la pelle, la mia mente era «una scimmia che saltava da un ramo a un altro», come John ci aveva avvertiti, e non ero capace,neppure per un attimo, di farne «un bufalo solido e forte, mettergli una corda al collo e legarlo a un palo».«Pensa solo a quel punto, senti solo quella sensazione del respiro che tocca la
pelle. Pensa solo a quel punto…» diceva, lentissimo, John, seduto sulla pedana
come un grande Buddha di cera. «Nell’attimo in cui il respiro tocca la superficie della pelle, i tessuti nervosi rispondono con una sensazione, con l’esperienza del tocco… Sii cosciente di quella sensazione… Sii cosciente del respiro che entra, che esce… e i fuochi dell’ingordigia, dell’odio, dell’ignoranza, del desiderio, dell’avversione si estingueranno e la mente sarà calma, serena, libera dalla paura, dall’angoscia…»
Tenevo i piedi sotto le ginocchia, gli occhi chiusi, le mani ferme, ma la testa,
quando non si fissava sul dolore nelle gambe o sulla voglia di alzarmi e di ur-
lare, mi andava in tutte le direzioni: scappava e non riuscivo a richiamarla.
Non la dominavo; non era mia. Inutile. Il dolore diventava insopportabile e ancor prima che John annunciasse la fine dell’ora, interrompendo il silenzio col
suo amen che era: «Possano tutti i nostri meriti essere condivisi da tutte le
creature», io cedevo, mi muovevo, cambiavo posizione, aprivo gli occhi… ed ero
frustrato a vedere come certi altri invece continuavano serenamente.
Varie volte fui sul punto di andarmene. Che senso aveva stare a occhi chiusi dinanzi a una bellissima natura? Che senso aveva pensare solo per negare ogni pensiero e impormi artificialmente del dolore di cui la vita prima o poi dà a tutti
– e certo anche a me – la sua dose?
Ascoltai i primi sermoni del tramonto, irritato dalla loro sostanza. «Tutto nel-
la vita è sofferenza. Si nasce provocando sofferenza, si muore soffrendo. Si
soffre per quel che si vuole, si soffre per paura di perderlo quando lo si
ha…» diceva John. Mi infastidiva il suo parlare di «energia di livello superiore», di «affinare la lente d’ingrandimento della concentrazione». L’idea era
che, passando i primi tre giorni solo a pensare a quel punto dove il respiro
tocca la pelle, la mente si sarebbe calmata. Sia l’esercizio – chiamato “anopa-
naa” – sia la sua spiegazione mi parevano intellettualmente umilianti.
C’erano però dei piaceri. Uno era il silenzio. Nella cerimonia di apertura ci
eravamo impegnati, in maniera abbastanza formale, a rispettare per tutta la durata del corso i Cinque Precetti: non uccidere (e questo valeva per qualsiasi
essere vivente, anche le zanzare, per cui a Pongyang non venivano usati insetti-
cidi), non mentire, non prendere ciò che non è dato, non avere rapporti sessuali
(«né con se stessi, né con altri», fu la formula usata), non prendere intossicanti (voleva dire non bere caffè e non fumare). C’eravamo inoltre ripromessi di
non mangiare dopo mezzogiorno, di non portare gioielli, di non usare profumi e
di non dormire in un letto troppo comodo. Inoltre c’eravamo impegnati a mantenere il Nobile Silenzio, cioè a non parlare e a non fare rumori che distraessero gli altri. E questo fu magnifico.
Durante le passeggiate fra una meditazione e l’altra si incontravano gli altri
partecipanti e non c’era bisogno di fare conversazione; un cenno muto della te-
sta bastava. A tavola non c’era bisogno di dire qualcosa tanto per riempire il
vuoto, che a volte pare insopportabile, con banalità ancora più vuote. Ognuno
era sempre solo con se stesso.
Il silenzio fu una grande scoperta perché, senza quel primo piano delle parole
altrui, mi accorsi che anche la grandiosa bellezza della natura era nel suo si-
lenzio. Guardavo le stelle e sentivo il loro silenzio; la luna non faceva rumore
e anche il sole si levava e tramontava senza nemmeno un bisbiglio. Persino il
fragore della cascata, i gridi degli uccelli o il frusciare del vento tra le
fronde degli alberi mi parevano alla fine parte di uno straordinario, animato,
cosmico silenzio di cui godevo, in cui trovavo pace.
Mi parve che, questo del silenzio, fosse un diritto naturale che ci era stato
tolto. Pensai con orrore a quanta parte della vita se ne va, calpestata dalla
cacofonia che ci siamo inventati con l’illusione che ci faccia piacere o compagnia. Ciascuno dovrebbe, ogni tanto, riaffermare questo diritto al silenzio e concedersi una pausa, una pausa di giorni di silenzio, per risentire se stesso,
per riflettere e ritrovare un po’ di sanità.
Un altro piacere veniva dallo sforzo. Il fatto di essersi impegnati a rispettare
le varie proibizioni acquistava, con il passare dei giorni, sempre più valore e
il mantenere l’impegno dava la sensazione di acquisire una forza. John diceva
che quello sforzo serviva a «creare una base di moralità» per lo stadio successivo della meditazione. Ed era vero che lentamente, proprio per aver fatto lo sforzo, uno sentiva di meritarsi qualcosa come ricompensa. «Negli ultimi giorni capirete. Tutto avrà senso. Tutto troverà il suo posto», ripetevano John e il generale, dando da sperare che, a forza di concentrarsi su quel punto dove il
respiro tocca la pelle, avremmo preso il controllo della nostra mente e con ciò
ci si sarebbero aperti nuovi orizzonti.
Quella era la vera ragione per la quale ero lì. Durante tutto l’anno, passato in
odore di indovini, in vari modi ero finito per trovarmi dinanzi a questa parola,
«la mente», e per essere affascinato dalla possibilità dei suoi «poteri». M’era
venuto da pensare che in Occidente, per varie ragioni, con il passare del tempo
l’uso della mente era andato limitandosi e che con ciò s’era persa gran parte
della sua capacità. Mi interessava riscoprire, se davvero c’era mai stata, quel-
la via dimenticata. Poteva la mente essere come un organo che si atrofizza per-
ché non viene sfruttato in tutta la sua potenzialità?
Pensavo a me. Ogni giorno, da anni ormai, corro per qualche chilometro, faccio
ginnastica e cerco di tenere in esercizio i muscoli che so essermi utili. Ma
quando mai mi sono occupato della mia mente? Quando mai ho fatto degli esercizi
per rafforzarla, per permetterle ciò di cui è capace? La mente è uno degli strumenti più sofisticati che abbiamo a disposizione, eppure non la trattiamo neppure con il riguardo con cui trattiamo i muscoli delle gambe! Non le insegniamo a concentrarsi, non la addestriamo più a sviluppare quei poteri che in passato altri le hanno attribuito.
Alexandra David Neel, la straordinaria esploratrice francese dell’Himalaya degli
anni ’30, racconta di lama tibetani capaci, con la mente, di smaterializzarsi e
di altri capaci di comunicare tra loro a grandi distanze. Tutto falso? Forse no.
Forse c’era davvero qualcosa nella mente umana che, strada facendo, abbiamo perso. E’ stata l’ipotesi che da qualche parte nel mondo ci fossero ancora esseri
umani in grado di usare la mente in questo modo a spingere alcuni europei alla
loro ricerca in Asia. Nel 1924 un giovane inglese, Paul Brunton, andò in India a
incontrare “yogi”, eremiti e fachiri, cercando di capire come, attraverso l’e-
sercizio della mente, fossero arrivati a una «sapienza» che, secondo lui, la mo-
dernizzazione stava facendo sparire.Il primo passo di tutte le varie vie verso quella «sapienza» era la meditazione.
Allora, tanto valeva capire che cos’è.
Osservavo John meditare, appena più in alto di me, sulla pedana, avvolto in una
grande coperta bianca, immobile come una statua di gesso. Era rilassato e con-
centrato; la sua fronte era distesa e le sue labbra accennavano a un leggerissi-
mo, quasi beffardo sorriso – mi pareva -, come se con quegli occhi chiusi vedes-
se qualcosa che mi era negato, come se con quelle grandi orecchie dai lunghi lo-
bi sentisse qualcosa di più che il silenzio della natura. John, il passo l’aveva
fatto. Non so verso quale «sapienza», ma certo verso una calma che gli stava at-
torno come un alone.
[…]
Nel terzo Discorso del tramonto sul Dharma, «la via della verità, della purifi-
cazione, della disintossicazione» (e il mio stomaco si rivoltava a quel linguag-
gio), John disse che il grande contributo del Buddha è d’aver capito che l’es-
senza del mondo è la sua instabilità, la sua non permanenza, “aniiccia”. Da qui
viene tutta la sofferenza. Prendere coscienza di “aniiccia” è la sola via per
uscire dal dolore.
E così, dopo tre giorni di “anapanaa”, di concentrazione sul punto appena sotto
le narici dove il respiro tocca la pelle, per prendere coscienza delle sensazio-
ni di contatto, di calore, di movimento dell’aria, si passò alla vera meditazio-
ne, “vippasanaa”, la meditazione interna. Si trattava ora di dirigere quella
«lente d’ingrandimento, quel fascio di attenzione della mente, affinata dalla
concentrazione», alla contemplazione del proprio corpo.
Si doveva dunque cominciare portando tutta la mente su quel punto sotto le nari-
ci, poi muoverla in alto, al centro della testa – capii finalmente perché molte
statue di Buddha proprio lì hanno una fiamma – e dal punto più alto del corpo,
lentissimamente, senza perderne il controllo, spostare la mente nella pelle,
sotto la pelle, nel cranio, all’interno del cervello, negli occhi, nel naso e
giù, lentamente, dentro il petto, nei polmoni, nel cuore, nelle vene, nelle os-
sa, negli organi della pancia, e giù giù nelle gambe, nelle dita dei piedi, nel-
la suola, nel punto più basso del corpo, senza mai pensare ad altro, con la men-
te puntata come una pila in una caverna, sempre prendendo coscienza di ogni sensazione, rendendosi conto che tutte sono transitorie, che il dolore, il piacere,
il tocco del vento, un suono sono sempre passeggeri. «Conoscere “aniiccia”…
continuate a conoscere “aniiccia”… “aniiccia” è tutto», ripeteva con voce len-
ta e profonda John. Conoscere “aniiccia”. Un’ora dopo un’altra, giorno dopo
giorno. Senza scambiare una parola con nessuno e da allora, anche fuori della
meditazione, sempre coscienti di ogni gesto, di ogni passo nel camminare, di o-
gni boccone nel mangiare, di ogni sorso d’acqua che andava sentito scendere nello stomaco e posarsi.
John, alternandosi sulla pedana con il generale, cominciava le sue ore di medi-
tazione con una preghiera che si aspettava con piacere:
«Possano tutti gli esseri avere pace e felicità.
Possano tutti gli esseri liberarsi
dall’ignoranza, dai desideri, dalle avversioni.
Possano tutti gli esseri liberarsi
dalla sofferenza, dal dolore, dai conflitti.
Possano tutti gli esseri riempirsi di infinita amorevole gentilezza ed equanimità.
Possano tutti gli esseri raggiungere
la completa illuminazione».
Io, con ancora maggior piacere, aspettavo il suo “amen” che metteva fine all’ora
di tortura. Non facevo alcun progresso. Riuscivo, con grandi sforzi e dolori, a
stare più fermo che all’inizio, ma non era per questo che ero lì. Il fine era
imparare a meditare e in quello ero zero. Mi si addiceva esattamente quel che,
una volta, un famoso monaco-meditatore aveva detto a John: «Ho visto una gallina restare immobile per tre giorni a covare le sue uova, ma non ho mai visto una gallina illuminata».
Con il passare dei giorni trovavo John sempre più convincente. Non c’era in lui
niente di falso, nessuna pretesa. Era un semplice che credeva di aver capito una
grande verità. Era un laico che faceva un esercizio, un esercizio che non era
necessariamente religioso, ma spirituale.
[…]
«Allora, maestro, tu che conosci l’Occidente non ti offenderai», gli dissi nel-
l’unico momento in cui, chiamato nel suo bungalow per riferire sui progressi che
facevo nella meditazione, ero autorizzato a rompere il Nobile Silenzio, «non ti
offenderai se ti dico che in tutti questi giorni non ho meditato un solo minuto;
che, invece di concentrarmi sul naso, la mia mente ha fatto di tutto, dal ridi-
pingere la casa in campagna a un progetto per allargare la biblioteca; invece
che pensare al respiro, ho pensato alle cose da scrivere e a quanto è assurdo
essere qui; quando tu dici di pensare alla ‘gola’, penso a stringere la tua che
mi forzi a questa tortura; quando dici ‘gambe’, penso a quelle sotto le gonne di
tutte le thailandesi che mi stanno lì accanto, anche alle gambe di quella vecchia e brutta in ultima fila!»
John rise divertito. «Non disperarti», disse. «Anche tutto quello che dici è
passeggero. Finirà. Magari sono secoli che la tua mente non è stata messa sotto
controllo. E ora, tutt’a un tratto, pretendi di domarla? In pochi giorni? Aspet-
ta. Tieni duro. Continua a conoscere “aniiccia”.»
[…]
La prima ora di meditazione, ancor prima che il sole si alzasse, era la più bel-
la. Un vento fresco, sfumato di odori, soffiava dalla valle, attraversava la
terrazza, sfiorava quelle masse triangolari, immobili, di gente avvolta nelle
coperte e scompariva nella foresta ancora nerissima sulla collina. John, nella
sua coperta bianca che gli copriva metà della faccia, era un’incoraggiante pre-
senza. Ai suoi piedi, il generale era la riprova che meditare era possibile:
stava immobile, ma era, in qualche modo, lontanissimo. Seduto, guardavo a lungo questa muta scena di pace, prima di chiudere anch’io gli occhi. Mi pareva che il gruppo come tale sprigionasse una grande energia e che lo sforzo comune elevasse lo sforzo di ciascuno.
La mattina dell’ottavo giorno elevò anche il mio. Le gambe mi facevano malissi-
mo, stavo di nuovo per cedere, ma d’un tratto la sofferenza s’acquietò, il dolo-
re non mi fece più paura, cominciò a sciogliersi e sparì. Ce l’avevo fatta. La
mente non era più una scimmia che saltava di ramo in ramo. Era lì. Era mia. Fu
un grande piacere. Poi sentii le parole di John: «Lascia andare… Lascia anda-
re… Non attaccarti a niente… Non desiderare niente». Anche quel piacere d’aver domato la mente, d’aver dominato il dolore, era passeggero, era “aniiccia” e
lasciai che se ne andasse. Tornai al punto dove il respiro toccava la pelle e mi
parve di vedermi separato: la mente, fuori di me, che guardava il corpo ridotto
a uno scheletro insensibile, attraverso il quale sentivo, vedevo soffiare la
brezza dell’alba. Una sensazione che non avevo mai provato prima. Sentii la voce di John dire il suo “amen”, sentii il gong annunciare la colazione, ma rimasi
ancora immobile, come avessi perso un po’ della mia pesante materialità.
Le ore successive non furono così belle, ma il tempo passava, senza che ne aspettassi più con impazienza la fine. Meditare non era più una prova di resistenza contro l’orologio, come stare sott’acqua finché i polmoni non scoppiano.
Meditare era diventato quello che doveva essere: un esercizio di concentrazione.
Ebbi l’impressione di aver «imparato» qualcosa, come a nuotare, a leggere. Ora
toccava a me. Avevo messo la cavezza a questa bestia che era la mia mente; si
trattava di decidere in che direzione cavalcare.
Usai l’intervallo di mezzogiorno per andare a meditare in cima alla cascata. Do-
po “anapanaa”, entrai nella pelle, mi persi in una cellula e mi si aprì il vuo-
to. Mi vennero incontro immagini dorate di volti di gente che conoscevo: mia madre, mio padre, poi degli sconosciuti… poi dei bellissimi colori. C’ero arri-
vato!
Ebbi di nuovo grandi crampi e difficoltà, ma ormai sapevo che passavano, che ero capace di tornare a quella porta e traversarla. Soprattutto avevo capito la
grandezza di John e del suo metodo: arrivare all’idea della non permanenza, alla
coscienza di “aniiccia”, usando quel dolore indotto dall’immobilità. Una volta
accettato che anche il dolore, come tutto il resto, era passeggero, il grande
passo era fatto.
Quell’esperienza mi rafforzò nella mia ipotesi: l’esclusiva fede nella scienza
aveva tagliato fuori noi occidentali da un interessante bagaglio di conoscenza.
Avevamo imboccato l’autostrada del sapere scientifico e avevamo dimenticato tutti gli altri sentieri che un tempo, certo anche noi, conoscevamo. Qui era la
prova: il dolore non era soltanto un fenomeno fisico da mettere sotto controllo
con una pasticca. Addestrando la mente si poteva arrivare allo stesso risultato.
[…]
L’ultima ora di meditazione fu dedicata alla pratica dell’«amorevole gentilezza». L’idea era che alla fine del corso, con la mente calma e purificata, ci si
rivolge a tutti gli altri esseri per spartire con loro i meriti acquisiti con la
pratica. Era un inno all’amore e John lo concluse leggendo la sempre magnifica
lettera di san Paolo ai Corinti: «Se avessi l’eloquenza degli uomini o degli an-
geli, ma parlassi senza amore, sarei come un gong che rimbomba o un cimbalo che tintinna. Se avessi il dono della profezia, se capissi tutti i misteri e cono-
scessi tutte le cose e se avessi la fede da muovere le montagne, ma non avessi
l’amore, non sarei che un niente…» E niente hanno aggiunto venti secoli di
pensiero.
[…]
Fummo sciolti dai voti e liberati dall’impegno al Nobile Silenzio. Alla sera ci
sarebbe stata una cena – non vegetariana e con vino – per celebrare la fine del
ritiro e per permettere ai partecipanti di parlarsi e conoscersi. Non era certo
quel che volevo! Presi il mio sacco e scappai via.